di Marzia F. Vaccino
Nel percorso di ricerca e scrittura tesi del corso di specializzazione TFA - UNICT, ho avuto il privilegio di dialogare con Monica Felloni e Piero Ristagno, fondatori di Néon Teatro, realtà artistica attiva da oltre quarant’anni nel campo del teatro integrato e della sperimentazione linguistica e performativa con persone con disabilità.
La seguente intervista è il frutto di un lungo e intenso dialogo in cui abbiamo affrontato temi centrali per la riflessione pedagogica e artistica: il teatro come strumento di relazione e cura educativa, la reciprocità nell’apprendimento, l’equilibrio tra diversità in scena, il corpo come veicolo espressivo e la responsabilità personale nella relazione educativa.
Il testo è stato rielaborato in forma discorsiva per agevolarne la lettura, pur mantenendo fedelmente il contenuto e lo spirito originale dell’incontro. Le parole di Monica e Piero, con la loro forza poetica e radicale, non rappresentano solo una testimonianza, ma si configurano come un vero e proprio manifesto etico ed estetico per una scuola e un teatro capaci di accogliere e trasformare.
Intervista di Marzia F. Vaccino a Monica Felloni e Piero Ristagno Catania, 11/04/2025 – video call h. 10.00
Domanda: Monica, Piero, vi ringrazio per aver accettato di partecipare a questa intervista. Sto scrivendo una tesi sul teatro e la disabilità nell’ottica della pedagogia inclusiva e il vostro contributo è per me fondamentale. Comincerei col chiedervi come nasce il vostro percorso all’interno delle scuole e quale significato assume, per voi, il teatro in ambito educativo.
Monica Felloni: Il nostro approccio con il teatro nella scuola è cominciato attraverso la mitologia greca. Abbiamo proposto rappresentazioni legate alla tragedia classica, e forse non a caso: il mito, con le sue figure archetipiche, riesce ancora oggi a parlare profondamente al nostro tempo. È stato naturale, per noi, portarlo tra i ragazzi. Penso che in questo abbia avuto un peso anche la mia formazione e l’influenza di figure come Don Milani, con la sua visione della scuola come luogo di cura educativa.
Piero Ristagno: Se parliamo di Don Milani è proprio questo il pensiero fondamentale che ci ha lasciato in eredità: la cura educativa come metodo pedagogico, la cura del ragazzo in tutto il percorso, in un percorso che abbraccia non solo quello che è il momento della scuola ma che sia proprio un progetto di vita. È proprio questo che rende il teatro così potente nella scuola: accade nel momento presente, in un tempo reale, irripetibile. È ogni volta diverso. I ragazzi, anche quelli che abbiamo accompagnato fuori dal contesto scolastico, continuano a vivere con noi questa esperienza: alcuni proseguono gli studi, altri intraprendono un percorso professionale legato al teatro. Il nostro lavoro non si esaurisce nello spettacolo, ma continua come progetto di vita condivisa.
Domanda: Avete citato la “cura educativa” in relazione al vostro lavoro teatrale. Che rapporto c’è, per voi, tra pedagogia inclusiva e creazione artistica?
Piero Ristagno: La parola “inclusione” non ci piace granché, implica che qualcuno è escluso, e questo già crea una distanza. Vorremmo che fosse superflua. Parliamo piuttosto di relazione, di cura come sguardo attento all’altro. E non in un’ottica assistenzialistica, ma proprio come necessità di relazione. L’arte, e il teatro in particolare, sono luoghi privilegiati per questa reciprocità. L’idea di “insegnare” a qualcuno contiene già un errore, secondo noi. Chi insegna ha comunque sempre bisogno e ha sempre occasione di imparare: ogni incontro è un’occasione per apprendere qualcosa dall’altro. La pedagogia, in questa ottica, è uno spazio di cooperazione. Come diceva il linguista Grice, la comunicazione si fonda su un principio di cooperazione reciproca. Il teatro è uno spazio in cui questo accade.
Domanda: Cosa succede ai ragazzi quando partecipano a un percorso teatrale inclusivo?
Monica Felloni: È una trasformazione reciproca. I ragazzi senza disabilità spesso imparano dai loro compagni con disabilità il coraggio, l’urgenza di vivere. Il desiderio di comunicare, che a volte è stato negato a lungo, emerge con una forza travolgente. Questo genera una crescita per tutti. Ma solo se il lavoro è davvero comune, solo se tutti si divertono, crescono, se sono felici insieme. Altrimenti non funziona. Questo è un lavoro che si basa su un equilibrio tutto da costruire, da trovare, tra chi è in carrozzina e chi non lo è, altrimenti emergono delle difficoltà di relazione. E’ necessario concedersi il tempo della scoperta dell'altro e di conseguenza della scoperta di sé rispetto all'altro: come e in che modo io mi attivo rispetto a te, ognuno con il proprio funzionamento. Imparare a conoscere il funzionamento di ogni attore che deve esprimere sè stesso attraverso la propria corporeità è importante. Questo è un compito importante del regista. “Funzionamento” secondo me è una parola bellissima perché implica il diverso funzionare di ognuno di noi per come è fatto. Il palcoscenico per come lo intendiamo noi è proprio questa possibilità di espandersi. Il palcoscenico non sono solo le tavole di legno, ma è tutto, è il video, è l'aria, è lo spazio dei corpi.
Domanda: Nelle vostre rappresentazioni il corpo è centrale. Come riuscite a non cadere nella spettacolarizzazione della disabilità? Monica Felloni: La risposta è semplice: amandoli. Il corpo in scena è amato nella sua interezza, nella sua verità. Non c’è intenzione di mettere in mostra, ma di mostrare con verità. Un corpo storto, una voce che non esce, uno sguardo che comunica tutto: sono questi i nostri linguaggi. Ma l'amore è un elemento conseguenziale a una necessità. Una necessità che riguarda la vita: senza questa necessità di relazione non può esserci vita. L'amore è questo. Bisogna considerare l’incontro con l’altro come necessario: un’occasione a cui non mi sottraggo e allo stesso tempo un’occasione di incontro necessaria nel qui e ora, affinché avvenga lo scambio relazionale della comunicazione umana. Questo è amore, incontrarsi e fare sì che possiamo essere gli uni occasione di scambio, di arricchimento per gli altri.
Piero Ristagno: Però va specificato che l’amore non è sentimentalismo. È una necessità, come l’aria. Incontrare l’altro è necessario. Ed è in quel momento – non prima, non in teoria – che lo riconosciamo come fondamentale.
Domanda: In che modo pensate che queste riflessioni possano entrare nella scuola, nella quotidianità della didattica? Il Teatro si configura come uno strumento imprescindibile?
Piero Ristagno: Non è il teatro in sé a essere necessario. Potrebbe anche essere la matematica, la grammatica, la poesia. Non è lo strumento, ma la relazione. Non esiste una tecnica buona a prescindere: esiste una persona che, usando quella tecnica, si relaziona agli altri. E solo allora diventa efficace. Ma bisogna assumersi pienamente e integralmente la responsabilità della relazione con l’altro senza nascondersi dietro l’applicazione di una tecnica, di una teoria o di un’ideologia. Nell’incontro c’è la persona che in quel momento agisce nella relazione, non c’è la tecnica, c’è la persona che è responsabile totalmente, in maniera assoluta di quello che sta facendo, senza deleghe di responsabilità da recapitare alle teorie o alle metodologie.
Monica Felloni: Come dicevi tu, anche portare i ragazzi a travestirsi da personaggi del medioevo (n.d.r.: si fa riferimento al role play di una UDA realizzata a scuola) funziona non perché c’è un costume, ma perché c’è un insegnante che si diverte con loro. È la tua gioia, il tuo coinvolgimento non come insegnate ma come persona che fa la differenza.
Piero Ristagno: E’ lì la bellezza della relazione con i ragazzi: se dici loro “facciamo dei video?”, loro si mettono a volare se vuoi che volano, ma solo perché la loro insegnante vuole giocare insieme a loro e propone un gioco in cui lei si diverte con loro. Non sentono che la docente sta insegnando qualcosa, non gliene frega niente di imparare ai ragazzi, vogliono solo giocare: ecco la potenza della dimensione ludica.
Domanda: Nèon Teatro produce anche cortometraggi: come si coniuga l’audiovisivo con il teatro?
Piero Ristagno: È stato naturale. Monica può dirigere tutto: una scena, un corto, persino un’orchestra! Perché la regia non è una questione di forma, ma di sguardo. Anche i video che facciamo nascono sempre dal teatro, dall’urgenza espressiva che lì si manifesta. Monica Felloni: Durante il Covid, quando il teatro si è fermato, abbiamo continuato a creare attraverso l’audio visivo. Con Danilo Ferrari, Felice Tagliaferri… Abbiamo unito immagini e parole per continuare a vivere la relazione, oltre i limiti imposti, al di là dei confini di spazio e tempo, per tradurre l’assenza in relazione.
Domanda: Quali sono gli ostacoli principali che incontrate nel vostro lavoro?
Piero Ristagno: Gli altri (n.d.r.: ride). In positivo e in negativo, sempre gli altri. A volte siamo noi stessi il problema per gli altri. Siamo destabilizzanti. Ci scontriamo con i luoghi comuni, anche quelli apparentemente illuminati. Ma se non ci fosse il conflitto, non ci sarebbe neanche la possibilità di cambiare. Domanda: Ultima domanda. Come far arrivare questa urgenza di relazione anche agli insegnanti? Monica Felloni: Tu sei nella scuola, e allora con te entra il teatro. È la persona, non lo strumento, a fare la differenza. Non esiste un approccio giusto. Esisti tu, il tuo desiderio di metterti in gioco, di giocare con loro, di vivere insieme.
Piero Ristagno: L’approccio sei tu. Non basta apprendere una tecnica, serve una visione. La più alta responsabilità è scegliere come vivere le relazioni. Il teatro, la scuola, la vita: tutto dipende da come scegli di esserci.